La fine del supporto di un sistema operativo non è mai qualcosa di banale. Sopratutto se l’OS in questione è tra i più utilizzati al mondo, ancora oggi. Stando gli ultimi dati di StatCounter, Windows 7 è il secondo sistema Windows più diffuso, dopo Windows 10. Se quest’ultimo è su circa il 55% di tutti i sistemi attivi al mondo, il successore di XP si attesta su un 33,78%. Il che rende l’end of support un gran problema.
Quando Microsoft annuncia la fine del supporto, spiega per un lungo tasso di tempo cosa questo significhi. Dal 14 gennaio del 2020, dunque tra poco più di 6 mesi, la compagnia di Redmond non lavorerà più su patch correttive per Windows 7, lasciando gli utenti teoricamente senza copertura difensiva per le minacce digitali. Se l’utente singolo è assolutamente interessato a un tale contesto, lo sono ancora di più le aziende, che rischiano grosso senza una valida copertura che funga da tappa buchi alle falle che, di volta in volta, escono dall’ambiente di produzione telematica.
Il consiglio principale, andando verso l’end of support è aggiornare, ovviamente. Purtroppo l’operazione non è sempre possibile, perché i requisiti di sistema all’epoca di Windows 7 non sono certi quelli odierni per Windows 10. E allora le cose si complicano: meglio installare un sistema più aggiornato che, però, giungerà prima o poi all’EOS. Pensiamo a Windows 8, meglio a Windows 8.1, che a differenza di 10 permette ancora un certo riutilizzo dell’hardware di un tempo. Il fatto è che molti software, anche professionali, hanno fatto il grande passo di aggiornare le API Windows 10, che non è detto siano compatibili anche con le piattaforme precedenti.
Un utente finale ha sempre l’opportunità di comprare un nuovo computer, a prezzi peraltro molto abbordabili oggi, mentre una compagnia con un parco macchine pur ridotto, inferiore comunque al centinaio, si troverebbe dinanzi ad una richiesta economica importante. Il punto è: bisognava programmare oggi lo switch verso qualcosa di più moderno? Certamente no. Wannacry, diffusosi anni fa, ha mostrato quanto il mondo enterprise sia lento nell’effettuare l’upgrade delle proprie macchine. Le vittime del ransomware, nella quasi totalità dei casi, montavano Windows XP, il cui supporto è terminato nel lontano 2015. Con una strategia IT funzionale non si arriverebbe a ciò.
Dunque le strade per passare a Windows 10 sono de: acquistare un nuovo PC con Windows 10 o aggiornare Windows 7. Se il computer con Windows 7 è antecedente al 2012, oppure ha meno di 4 GB di RAM o non monta un disco a stato solido (SSD), si finirà con l’avere una macchina quasi inutilizzabile: meglio cogliere l’occasione per passare ad altro. In caso contrario, si può certamente valutare la possibilità dell’update dell’hardware corrente: pressoché la totalità dei PC con Windows 7 ancora oggi in circolazione è infatti aggiornabile a Windows 10. Servirà un backup prima di procedere, visto che il processo, per adattare interfacce e codici, potrebbe dover installare il sistema da zero.
Anche se Microsoft ha fatto un lavoro ammirevole nel rendere Windows 10 in grado di funzionare su hardware più vecchio, è comunque un sistema operativo moderno che potrebbe faticare a funzionare bene su un dispositivo datato. Ad ogni modo, ecco le specifiche minime per Windows 10: Processore da 1 GHz; RAM da 1 GB per 32 bit o 2 GB per 64 bit; spazio su disco rigido da 16 GB per sistema operativo a 32 bit e 20 GB per sistema operativo a 64 bit. Scheda grafica almeno DirectX 9 o successiva, con driver WDDM 1.0; display con risoluzione 800×600 pixel.
Il consiglio è però un processore dual-core da 2 GHz, 4 GB di RAM (idealmente 8 GB) e un disco rigido da 160 GB. Se non si dispone dell’hardware richiesto, ma si desidera eseguire l’aggiornamento a Windows 10, è possibile utilizzare il tool di verifica di Microsoft, gratuito e veloce.